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In tema di responsabilità medica, il paziente danneggiato non ha l’onere di provare nel processo l’errore medico. Deve infatti dimostrare il danno subito e il nesso causale
Prima di procedere ad un intervento chirurgico per ipertrofia prostatica, al paziente veniva somministrata anestesia spinale con bupivacaina. L’uomo però accusava subito un vivo dolore seguìto da una specie di scossa elettrica. Il mese successivo, accusando disturbi alla spalla destra e difficoltà respiratorie, il paziente si era recato al Pronto Soccorso dove gli veniva diagnosticata la paralisi del nervo ascellare destro e dell'emidiaframma sinistro «da verosimile reliquato di anestesia».
Il paziente chiedeva quindi all’ASL il risarcimento dei danni dovuti all’erronea manovra di anestesia.
La domanda veniva accolta dal Tribunale, ma la Corte d’Appello ribaltava la decisione.
Secondo la Corte d’appello il paziente aveva sbagliato a non chiedere la prova testimoniale di quanto accaduto quel giorno per dimostrare l’imperizia dell’anestesista che avrebbe introdotto l'ago nello spazio vertebrale per poi estrarlo e riposizionarlo più in alto, confessando all'infermiera ivi presente di aver sbagliato.
Il paziente ha quindi proposto ricorso in Cassazione. Le doglianze dell’uomo risultano fondate.
La sentenza impugnata ha infatti disatteso le regole sull’onere della prova ponendo a carico del paziente la prova dell'inadempimento della struttura sanitaria. Inoltre ha omesso di accertare adeguatamente il nesso causale tra il fatto e il danno subito.
Infatti, laddove il paziente affermi di aver subìto danni in conseguenza di una attività svolta dal medico sia la responsabilità della struttura sia quella del medico vanno qualificate in termini di responsabilità contrattuale, con la conseguenza che il paziente danneggiato deve dimostrare davanti al giudice il fatto che ha portato al danno e il c.d. nesso causale provando che la condotta del professionista è stata la causa del danno lamentato. Dall’altra parte, alla struttura sanitaria spetta dimostrare o l’esatto adempimento della prestazione medica o l’impossibilità per causa non prevedibile e inevitabile.
La Cassazione accoglie quindi il ricorso del paziente e rinvia la causa alla Corte d’appello per un nuovo esame della vicenda (Cass. civ., sez. III, ord., 5 marzo 2024, n. 5922).
La questione al centro di discussioni riguarda il vincolo emotivo intenso tra madre e figlio, mettendo in discussione la possibilità di adottare il minore. Tuttavia, è importante notare i progressi compiuti dalla donna per riacquistare le proprie abilità genitoriali. Degna di nota è la sua decisione di interrompere la relazione con un soggetto tossicodipendente e con precedenti penali legati alla droga.
Secondo l'ordinanza depositata dalla Cassazione (n. 6261 dell’8 marzo 2024), il comportamento della madre che comincia un percorso per implementare le proprie capacità genitoriali, oltre a un forte legame affettivo con il figlio, possono valere per revocare lo stato di adottabilità di quest’ultimo.
Il Tribunale per i minorenni ha avviato il procedimento di adottabilità basandosi sulla relazione dei Servizi sociali, che certificava un ritardo mentale leggero e un disturbo della personalità nella donna. Secondo la relazione dello psichiatra, la donna mostrava funzioni cognitive compromesse e una personalità immatura, compromettendo così il suo recupero delle abilità genitoriali in tempo utile e in linea con la crescita del figlio. Inoltre, il minore ha manifestato timori che potrebbero influenzare il suo sviluppo psicologico, con un atteggiamento ansioso-evitante. Viene, quindi, dichiarato lo stato di adottabilità del minore, collocato presso una famiglia affidataria con il completo distacco da quella di origine.
Tuttavia, la Cassazione valuta la possibilità di revocare l'adottabilità alla luce dei progressi della madre. La donna ha dimostrato di aver sempre curato il bambino, chiedendo supporto ai Servizi sociali e partecipando a programmi di sostegno genitoriale. Ha anche trovato lavoro, interrotto definitivamente la relazione con la madre e terminato la relazione con il partner tossicodipendente.
Infine, la donna si aggrappa all'affetto del figlio, evidenziato anche dalle dichiarazioni della famiglia affidataria. La madre sostiene di poter recuperare le proprie capacità genitoriali e tale visione è ritenuta possibile dai Giudici di legittimità. I giudici di appello, nel rivalutare la questione, dovranno tener conto dei rilievi svolti dai magistrati di cassazione, in particolare del fatto che «nel procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità, è necessario che l'indagine sulla condizione di abbandono morale e materiale [del minore] sia completa, verificando, in particolare, se l'interesse del minore stesso a non recidere il legame con i genitori naturali debba prevalere o recedere rispetto al quadro deficitario delle capacità del genitore».
Fondamentale tutelare le ragioni del minore e in questa ottica gli affidatari sono sicuramente in grado di rappresentare al giudice gli specifici interessi del minore
Se è in discussione l’affido extrafamiliare del minore, allora è fondamentale che al procedimento prendano parte gli affidatari del minore. Nella vicenda presa in esame dai giudici è stata accolta la richiesta presentata dai nonni materni del minore, che viene perciò a loro affidato per due anni, mentre, allo stesso tempo, alla madre viene chiesto di effettuare un percorso a supporto della sua capacità genitoriale. Questa decisione va però messa in discussione poiché è mancata, sottolineano i giudici, la partecipazione dei soggetti ai quali il minore era stato affidato. Su questo punto i giudici spiegano che la partecipazione degli affidatari al giudizio avente ad oggetto l’affido extrafamiliare – che è un istituto inteso quale soluzione ponte volto a far fronte a situazioni di reversibile difficoltà della famiglia biologica – è determinata dalla necessità di tutelare le ragioni del minore. E in questa ottica gli affidatari sono sicuramente in grado di rappresentare al giudice gli specifici interessi del minore. Indiscutibile, quindi, la legittimazione degli affidatari alla partecipazione al giudizio, partecipazione che può essere sollecitata anche dal rappresentante del minore. (Ordinanza 7787 del 10 marzo 2022)
Secondo la Corte di Cassazione gli interventi successivi e conseguenti a quello non correttamente eseguito non costituiscono una causa da sé sola sufficiente a determinare l’evento dannoso. Invero, tali interventi sono situazioni pregiudizievoli che si sono innescate a seguito del primo intervento.
La vicenda in esame si concentra sui danni causati a una paziente a seguito di un intervento chirurgico. A seguito di tale intervento la ricorrente si era dovuto sottoporre a ulteriori interventi che si erano rivelati non risolutivi, ma dai quali erano sorte delle complicazioni tra cui anche uno stato ansioso depressivo. La Corte di Appello di Roma, adita su ricorso del chirurgo responsabile dell'operazione, ha respinto l'appello contro la decisione del giudice di primo grado che lo aveva condannato insieme alla struttura ospedaliera. Per il giudice di primo grado, così come per i giudici di appello, il medico chirurgo e la struttura presso la quale aveva operato erano solidalmente responsabili per il risarcimento del danno patito dalla paziente. Il medico, quindi, ha proposto ricorso per cassazione.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza, n. 4277 del 2024, ha dichiarato il ricorso inammissibile e condannato il ricorrente a pagare le spese legali. Nell’esaminare i motivi di ricorso, i Giudici di legittimità si soffermano soprattutto sul ragionamento effettuato dal giudice di merito che, secondo quanto emerso dagli atti, aveva ritenuto il medico responsabile non solo di imperizia ma anche di negligenza. Sottolineano i Giudici che «ai fini della limitazione della responsabilità prevista da tale disposizione [art. 2236 c.c.], non rileva l'astratta conformità della tecnica adottata alle linee guida». A tal proposito la sentenza di merito ha riscontrato una condotta tenuta dal medico non solo imperita, ma anche negligente e, sempre in base ai rilievi tecnici, il chirurgo non aveva riscontrato alcuna difficoltà tecnica a fronte di condizioni personali della paziente preesistenti l’operazione primaria.
Per quanto riguarda l'importanza causale dei successivi interventi sanitari, la Corte rileva che i giudici di appello avevano accertato il carattere sia negligente che imperito dell’intervento eseguito e che dal quale erano sorte delle lesioni lamentate poi dalla paziente. Continuano ancora i Giudici rilevando che il collegio di appello aveva ritenuto che «a causa della non corretta esecuzione dell'intervento […] [la paziente] si era dovuta sottoporre ai successivi interventi, i quali, lungi dall'integrare cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento dannoso […] costituivano, a loro volta, eventi pregiudizievoli da esso innescato e, pur avendo determinato ulteriori complicanze, non avevano reciso il legame causale del primo intervento con i postumi finali e le connesse conseguenze risarcibili». (Cass. civ., ord., n. 4277 del 2024)
La cassazione riepiloga tutti i presupposti per procedere all'adozione di un soggetto maggiorenne e le differenze rispetto all'adozione dei minorenni.
Con l’ordinanza in oggetto la Corte di Cassazione ricorda che «per procedere all’adozione di maggiorenne occorre, oltre al consenso dell’adottante e dell’adottando, soggetti tra i quali si costituisce il rapporto adottivo, l’assenso dei genitori dell’adottando, del coniuge dell’adottante e di quello dell’adottando non separati legalmente, nonché dei figli maggiorenni dell’adottante, quali soggetti che subiscono rilevanti ripercussioni di status, proprio in seguito all’adozione; il Tribunale può ugualmente pronunciare l’adozione, se ritiene ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando il rifiuto dell’assenso da parte dei genitori o dei discendenti dell’adottante».
Nell’adozione di persone maggiori di età, inoltre, al giudice non è attribuito alcun discrezionale apprezzamento dell’interesse della persona dell’adottando, «né possono essere effettuati quegli incisivi controlli previsti per l’adozione di minori, che significativamente rispecchiano la diversità di presupposti e di finalità dei due istituti». L’art. 298 comma 2 stabilisce poi che, «finché il decreto non è emanato, tanto l’adottante quanto l’adottando possono revocare il consenso»; e questa Corte ha affermato che, «nel procedimento di adozione di persona maggiorenne disciplinato dagli articoli 291 e seguenti (nuovo testo) del codice civile, la revoca del consenso dell’adottante o dell’adottato deve essere espressa prima della pronuncia del tribunale e non anche prima della pronuncia della Corte d’appello in Sede di reclamo, essendo questa ultima meramente eventuale e non potendosi consentire che un atto dispositivo della parte ponga nel nulla il provvedimento del tribunale» (Cass. n. 1133/1988). Quindi, dopo la sentenza del Tribunale che pronuncia l’adozione, la revoca del consenso, dell’adottante o dell’adottando, è irrilevante in quanto è già intervenuta la sentenza di adozione, costitutiva dello status (Cass. civ., sez. I, ord., 12 febbraio 2024, n. 3766).
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