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Per la Cassazione i due istituti sono giuridicamente incompatibili
La pronuncia in oggetto nasce dal rigetto della domanda di adozione c.d. mite (art. 44, lett. d), legge n. 184/1983, come modificata dalla legge n. 149/2001) per inammissibilità.
Invero, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha ricordato una sorta di “incompatibilità” tra la dichiarazione dello stato di adottabilità e l’adozione cd “mite”, in quanto la giurisprudenza ha affermato che «il giudizio di accertamento dello stato di adottabilità di un minore, ai sensi degli artt. 8 e seguenti legge n. 184 del 1983, e il giudizio volto a disporre un'adozione "mite", ex art. 44, lett. d) della medesima legge, costituiscono due procedimenti autonomi, di natura differente e non sovrapponibili fra loro, poiché il primo è funzionale alla successiva dichiarazione di adozione "piena" (o legittimante), costitutiva di un rapporto sostitutivo di quello con i genitori biologici, che determina l'inserimento del minore in una nuova famiglia, mentre il secondo crea un vincolo di filiazione giuridica, che non estingue i rapporti del minore con la famiglia di origine, pur attribuendo l'esercizio della responsabilità genitoriale all'adottante. Ne consegue che nell'ambito del processo per l'accertamento dello stato di adottabilità non può essere assunta alcuna decisione che faccia applicazione dell’art. 44 lett. d), legge citata» (Cass. civ. n. 21024/22).
Nel caso di specie, la dichiarazione dello stato di adottabilità era già divenuta definitiva, essendo peraltro anche già stato emesso apposito decreto di affidamento preadottivo. Tali circostanze hanno indotto alla conferma dell’inammissibilità del ricorso finalizzato alla c.d. adozione “mite” «ancor più se si considera che ex art. 21 comma 4 della richiamata legge, lo stato di adottabilità non può essere più revocato ove (come nel caso di specie) sia in atto l’affidamento preadottivo» (Cass. civ., sez. I, ord., 19 marzo 2024, n. 7302).
In tema di responsabilità medica, il paziente danneggiato non ha l’onere di provare nel processo l’errore medico. Deve infatti dimostrare il danno subito e il nesso causale
Prima di procedere ad un intervento chirurgico per ipertrofia prostatica, al paziente veniva somministrata anestesia spinale con bupivacaina. L’uomo però accusava subito un vivo dolore seguìto da una specie di scossa elettrica. Il mese successivo, accusando disturbi alla spalla destra e difficoltà respiratorie, il paziente si era recato al Pronto Soccorso dove gli veniva diagnosticata la paralisi del nervo ascellare destro e dell'emidiaframma sinistro «da verosimile reliquato di anestesia».
Il paziente chiedeva quindi all’ASL il risarcimento dei danni dovuti all’erronea manovra di anestesia.
La domanda veniva accolta dal Tribunale, ma la Corte d’Appello ribaltava la decisione.
Secondo la Corte d’appello il paziente aveva sbagliato a non chiedere la prova testimoniale di quanto accaduto quel giorno per dimostrare l’imperizia dell’anestesista che avrebbe introdotto l'ago nello spazio vertebrale per poi estrarlo e riposizionarlo più in alto, confessando all'infermiera ivi presente di aver sbagliato.
Il paziente ha quindi proposto ricorso in Cassazione. Le doglianze dell’uomo risultano fondate.
La sentenza impugnata ha infatti disatteso le regole sull’onere della prova ponendo a carico del paziente la prova dell'inadempimento della struttura sanitaria. Inoltre ha omesso di accertare adeguatamente il nesso causale tra il fatto e il danno subito.
Infatti, laddove il paziente affermi di aver subìto danni in conseguenza di una attività svolta dal medico sia la responsabilità della struttura sia quella del medico vanno qualificate in termini di responsabilità contrattuale, con la conseguenza che il paziente danneggiato deve dimostrare davanti al giudice il fatto che ha portato al danno e il c.d. nesso causale provando che la condotta del professionista è stata la causa del danno lamentato. Dall’altra parte, alla struttura sanitaria spetta dimostrare o l’esatto adempimento della prestazione medica o l’impossibilità per causa non prevedibile e inevitabile.
La Cassazione accoglie quindi il ricorso del paziente e rinvia la causa alla Corte d’appello per un nuovo esame della vicenda (Cass. civ., sez. III, ord., 5 marzo 2024, n. 5922).
La questione al centro di discussioni riguarda il vincolo emotivo intenso tra madre e figlio, mettendo in discussione la possibilità di adottare il minore. Tuttavia, è importante notare i progressi compiuti dalla donna per riacquistare le proprie abilità genitoriali. Degna di nota è la sua decisione di interrompere la relazione con un soggetto tossicodipendente e con precedenti penali legati alla droga.
Secondo l'ordinanza depositata dalla Cassazione (n. 6261 dell’8 marzo 2024), il comportamento della madre che comincia un percorso per implementare le proprie capacità genitoriali, oltre a un forte legame affettivo con il figlio, possono valere per revocare lo stato di adottabilità di quest’ultimo.
Il Tribunale per i minorenni ha avviato il procedimento di adottabilità basandosi sulla relazione dei Servizi sociali, che certificava un ritardo mentale leggero e un disturbo della personalità nella donna. Secondo la relazione dello psichiatra, la donna mostrava funzioni cognitive compromesse e una personalità immatura, compromettendo così il suo recupero delle abilità genitoriali in tempo utile e in linea con la crescita del figlio. Inoltre, il minore ha manifestato timori che potrebbero influenzare il suo sviluppo psicologico, con un atteggiamento ansioso-evitante. Viene, quindi, dichiarato lo stato di adottabilità del minore, collocato presso una famiglia affidataria con il completo distacco da quella di origine.
Tuttavia, la Cassazione valuta la possibilità di revocare l'adottabilità alla luce dei progressi della madre. La donna ha dimostrato di aver sempre curato il bambino, chiedendo supporto ai Servizi sociali e partecipando a programmi di sostegno genitoriale. Ha anche trovato lavoro, interrotto definitivamente la relazione con la madre e terminato la relazione con il partner tossicodipendente.
Infine, la donna si aggrappa all'affetto del figlio, evidenziato anche dalle dichiarazioni della famiglia affidataria. La madre sostiene di poter recuperare le proprie capacità genitoriali e tale visione è ritenuta possibile dai Giudici di legittimità. I giudici di appello, nel rivalutare la questione, dovranno tener conto dei rilievi svolti dai magistrati di cassazione, in particolare del fatto che «nel procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità, è necessario che l'indagine sulla condizione di abbandono morale e materiale [del minore] sia completa, verificando, in particolare, se l'interesse del minore stesso a non recidere il legame con i genitori naturali debba prevalere o recedere rispetto al quadro deficitario delle capacità del genitore».
Fondamentale tutelare le ragioni del minore e in questa ottica gli affidatari sono sicuramente in grado di rappresentare al giudice gli specifici interessi del minore
Se è in discussione l’affido extrafamiliare del minore, allora è fondamentale che al procedimento prendano parte gli affidatari del minore. Nella vicenda presa in esame dai giudici è stata accolta la richiesta presentata dai nonni materni del minore, che viene perciò a loro affidato per due anni, mentre, allo stesso tempo, alla madre viene chiesto di effettuare un percorso a supporto della sua capacità genitoriale. Questa decisione va però messa in discussione poiché è mancata, sottolineano i giudici, la partecipazione dei soggetti ai quali il minore era stato affidato. Su questo punto i giudici spiegano che la partecipazione degli affidatari al giudizio avente ad oggetto l’affido extrafamiliare – che è un istituto inteso quale soluzione ponte volto a far fronte a situazioni di reversibile difficoltà della famiglia biologica – è determinata dalla necessità di tutelare le ragioni del minore. E in questa ottica gli affidatari sono sicuramente in grado di rappresentare al giudice gli specifici interessi del minore. Indiscutibile, quindi, la legittimazione degli affidatari alla partecipazione al giudizio, partecipazione che può essere sollecitata anche dal rappresentante del minore. (Ordinanza 7787 del 10 marzo 2022)
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