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Secondo la Corte di Cassazione gli interventi successivi e conseguenti a quello non correttamente eseguito non costituiscono una causa da sé sola sufficiente a determinare l’evento dannoso. Invero, tali interventi sono situazioni pregiudizievoli che si sono innescate a seguito del primo intervento.
La vicenda in esame si concentra sui danni causati a una paziente a seguito di un intervento chirurgico. A seguito di tale intervento la ricorrente si era dovuto sottoporre a ulteriori interventi che si erano rivelati non risolutivi, ma dai quali erano sorte delle complicazioni tra cui anche uno stato ansioso depressivo. La Corte di Appello di Roma, adita su ricorso del chirurgo responsabile dell'operazione, ha respinto l'appello contro la decisione del giudice di primo grado che lo aveva condannato insieme alla struttura ospedaliera. Per il giudice di primo grado, così come per i giudici di appello, il medico chirurgo e la struttura presso la quale aveva operato erano solidalmente responsabili per il risarcimento del danno patito dalla paziente. Il medico, quindi, ha proposto ricorso per cassazione.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza, n. 4277 del 2024, ha dichiarato il ricorso inammissibile e condannato il ricorrente a pagare le spese legali. Nell’esaminare i motivi di ricorso, i Giudici di legittimità si soffermano soprattutto sul ragionamento effettuato dal giudice di merito che, secondo quanto emerso dagli atti, aveva ritenuto il medico responsabile non solo di imperizia ma anche di negligenza. Sottolineano i Giudici che «ai fini della limitazione della responsabilità prevista da tale disposizione [art. 2236 c.c.], non rileva l'astratta conformità della tecnica adottata alle linee guida». A tal proposito la sentenza di merito ha riscontrato una condotta tenuta dal medico non solo imperita, ma anche negligente e, sempre in base ai rilievi tecnici, il chirurgo non aveva riscontrato alcuna difficoltà tecnica a fronte di condizioni personali della paziente preesistenti l’operazione primaria.
Per quanto riguarda l'importanza causale dei successivi interventi sanitari, la Corte rileva che i giudici di appello avevano accertato il carattere sia negligente che imperito dell’intervento eseguito e che dal quale erano sorte delle lesioni lamentate poi dalla paziente. Continuano ancora i Giudici rilevando che il collegio di appello aveva ritenuto che «a causa della non corretta esecuzione dell'intervento […] [la paziente] si era dovuta sottoporre ai successivi interventi, i quali, lungi dall'integrare cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento dannoso […] costituivano, a loro volta, eventi pregiudizievoli da esso innescato e, pur avendo determinato ulteriori complicanze, non avevano reciso il legame causale del primo intervento con i postumi finali e le connesse conseguenze risarcibili». (Cass. civ., ord., n. 4277 del 2024)
La cassazione riepiloga tutti i presupposti per procedere all'adozione di un soggetto maggiorenne e le differenze rispetto all'adozione dei minorenni.
Con l’ordinanza in oggetto la Corte di Cassazione ricorda che «per procedere all’adozione di maggiorenne occorre, oltre al consenso dell’adottante e dell’adottando, soggetti tra i quali si costituisce il rapporto adottivo, l’assenso dei genitori dell’adottando, del coniuge dell’adottante e di quello dell’adottando non separati legalmente, nonché dei figli maggiorenni dell’adottante, quali soggetti che subiscono rilevanti ripercussioni di status, proprio in seguito all’adozione; il Tribunale può ugualmente pronunciare l’adozione, se ritiene ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando il rifiuto dell’assenso da parte dei genitori o dei discendenti dell’adottante».
Nell’adozione di persone maggiori di età, inoltre, al giudice non è attribuito alcun discrezionale apprezzamento dell’interesse della persona dell’adottando, «né possono essere effettuati quegli incisivi controlli previsti per l’adozione di minori, che significativamente rispecchiano la diversità di presupposti e di finalità dei due istituti». L’art. 298 comma 2 stabilisce poi che, «finché il decreto non è emanato, tanto l’adottante quanto l’adottando possono revocare il consenso»; e questa Corte ha affermato che, «nel procedimento di adozione di persona maggiorenne disciplinato dagli articoli 291 e seguenti (nuovo testo) del codice civile, la revoca del consenso dell’adottante o dell’adottato deve essere espressa prima della pronuncia del tribunale e non anche prima della pronuncia della Corte d’appello in Sede di reclamo, essendo questa ultima meramente eventuale e non potendosi consentire che un atto dispositivo della parte ponga nel nulla il provvedimento del tribunale» (Cass. n. 1133/1988). Quindi, dopo la sentenza del Tribunale che pronuncia l’adozione, la revoca del consenso, dell’adottante o dell’adottando, è irrilevante in quanto è già intervenuta la sentenza di adozione, costitutiva dello status (Cass. civ., sez. I, ord., 12 febbraio 2024, n. 3766).
Indiscutibile l’adottabilità per salvaguardare le due bambine. Inutile l’opposizione da parte della madre
Abbandono e abusi per due bambine: adozione come unica soluzione. Niente affido agli zii che hanno ignorato l’incubo vissuto dalle nipotine. Inutile l’opposizione della madre delle due bambine. Priva di valore, difatti, secondo i giudici, la disponibilità ad accogliere le nipotine mostrata dagli zii solo dopo che esse sono state dichiarate adottabili e, peraltro, dopo avere consapevolmente ignorato i loro problemi. Privo di valore il riferimento fatto dalla donna alle figure degli zii materni, alla loro disponibilità e al loro rapporto affettivo con le bimbe. Su questo punto i giudici tengono a precisare che il rapporto significativo previsto dalla legge sull’adozione deve consistere in una relazione di cura e di accudimento dei minori, preesistente all’intervento della pubblica autorità, tra i soggetti che chiedono l’affido e le minori. Invece, in questa vicenda è emerso che gli zii non risultano essersi presi cura delle bambine, sottraendole, cioè, alla situazione di degrado e di abuso da loro subita (Ordinanza 9167 del 3 aprile 2023 della Corte di Cassazione).
Nessun risarcimento per i figli della donna morta anche a causa dell’errore dei medici nella prescrizione di un farmaco, se si appura che il pur grave episodio non aveva determinato una nuova patologia o aggravato quelle preesistenti che, tenuto conto dell’età della donna, risultavano già da sole estremamente gravi
Nello specifico, il decesso della anziana donna non può causalmente imputarsi alla condotta medica in discussione, dovendo correlarsi solo all’ictus cerebrale ischemico, che ha costituito un evento indipendente dall’indebolimento della pompa del cuore. In sostanza, l’errore compiuto dai medici aveva semplicemente accelerato il decesso in forma lieve, stante la rilevanza dello stato anteriore della paziente, e, di certo, non aveva avuto, in termini causali, una preponderanza tale da giustificare da sola o in gran parte il decesso, quanto piuttosto in minima parte, con ciò riferendo l’incidenza dell’episodio alle condizioni generali della paziente e non al decesso, risultando l’indebolimento della funzionalità cardiaca - connesso all’erronea prescrizione medica - estraneo alla serie causale dello specifico evento (ictus cerebrale recidivato) che ha determinato la morte della donna. Per fare chiarezza, comunque, i giudici precisano che qualora la produzione di un evento dannoso risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendo ritenersi lo stato patologico non riferibile alla prima, l'autore del fatto illecito risponde, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, di tutti gli eventi di danno che ne sono derivati, a nulla rilevando che essi siano stati concausati anche dai suddetti eventi naturali, che possono invece rilevare, sul piano della causalità giuridica, ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all'autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, così, all’autonoma situazione patologica del danneggiato non eziologicamente riferibile, cioè, a negligenza, imprudenza o imperizia del sanitario. (Ordinanza 27455 del 27 settembre 2023 della Cassazione)
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